Domenica con Roberta De Tomi
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Nuovo appuntamento con Roberta de Tomi, apprezzata scrittrice di Concordia sulla Secchia, che nelle pagine di In – Format propone ogni domenica alcune sue composizioni. Questa settimana Roberta ci permette di leggere un breve estratto del suo romanzo “Rosso Liberty”.(t.t.)
BRANO TRATTO DA “ROSSO LIBERTY” (Collana Milos – PubMe).
I suoi occhi verdi mi fissano, il sorriso non mi scalda più come faceva quando era con me. Lo sento lontano, ora più che mai. “Chiamalo. Hai il diritto di sapere perché ti ha lasciato.”
Mamma era una diretta, voleva sempre chiarire. Non si teneva nulla dentro e andava a fondo nelle questioni. Ecco, mi avrebbe detto proprio così. Prendo il telefonino e faccio partire la chiamata. Il cliente non è raggiungibile. Entro nella chat e scrivo.
IO. Ciao.
Resto in attesa. La spunta resta grigia. Lascio cadere il telefonino. Mi deve avere bloccato. Senza che io gli abbia fatto nulla. Altri perché mi esplodono in testa. Che cosa ho fatto? Ho detto qualcosa che non avrei dovuto dire? Si è stancato delle mie reticenze? Della mia paura continua di rischiare?
“Niente, musetta. Tu non hai fatto nulla.” Sento la voce di mia madre. Leggermente roca, ma anche delicata, come se volesse accarezzarmi. Inconfondibile, con l’epiteto che mi ha accompagnato per tutta l’infanzia. «Mamma, io devo avere fatto…» le rispondo come se fosse davvero con me. Ma le parole mi muoiono in bocca, quando realizzo quello che è accaduto. Mi rivolgo alla foto e la vedo. Gilda non sorride più. Mi guarda seria, la fronte contratta a formare la superficie di una grattugia.
“Tu non hai fatto niente. Lui ha sbagliato. Si è comportato come un vigliacco. Tu, invece, sei una persona splendida. Ma devi ancora metterti in testa quanto vali.” Il sorriso torna a splendere sul suo viso. Prendo la foto tra le mani e resto a guardare dritto davanti a me. Devo avere sognato. Mamma Gilda non può avermi parlato. Forse è meglio se esco a fare un giro. O se dormo. Magari mi risveglio per scoprire che è stato tutto un incubo.
Manuel è accanto a me, a letto, sprofondato nel solito sonno intervallato dal suo poderoso russare. Sì, sarà così. Si tratta di un incubo. M’infilo sotto le lenzuola e mi arrotolo, chiudendo gli occhi. Mi giro e rigiro come se fossi su una graticola, alzo e abbasso le gambe con scatti improvvisi. Cerco di distenderle, di pensare a qualcosa di positivo, ma non mi viene in mente nulla, così mi alzo di scatto.
Mi prendo la testa tra le mani, cercando di recuperare qualche indizio dai ricordi. Eppure, ieri, io e Manuel eravamo in fila, mano nella mano, al concerto dei Negramaro. Nessun battibecco, solo qualche momento in cui lui sembrava scollegarsi dalla nostra realtà. Lo sguardo che girava a vuoto, ma poi tornava, adornato da un tiepido sorriso. (…)
“Tutto bene?” gli chiedo, cercando di nascondere ogni traccia di preoccupazione. “Sì, sono solo un po’ stanco. È un periodo intenso, al laboratorio.” A pensarci bene, da qualche settimana si disconnette, più della mia linea telefonica. Mi sollevo e mi appoggio alla testiera. E se non stesse bene? Manuel non è il tipo da perdere il contatto con il mondo. È vigile, razionale, sempre sul pezzo. Il suo lavoro gli impone la massima precisione. Non è un sognatore, quindi ha sempre i piedi ben piantati per terra. Sbatto gli occhi e mi passo una mano tra i capelli. Non riesco a dormire per svegliarmi da questo incubo. Forse perché sono sveglia. E questa è la realtà che non voglio accettare. Manuel mi ha lasciato senza darmi alcuna spiegazione.